Un racconto di Carmelo Granara, noto Mellìn.
Ha intitolato il racconto “BENEDETTO TABARCHINO da Calasetta a Berlino andata e ritorno… per fortuna!
Racconta come, durante la prigionia in Germania, l’aver pronunciato poche parole appena sussurrate in tabarchino gli abbia salvato la vita.
Il nostro sentito ringraziamento va alla famiglia di Mellìn che ci ha fornito le sue foto e ci ha autorizzato a realizzare questo progetto, a Peppino Biggio che ha prestato la sua voce per la lettura, a Mario Parodi che ci ha segnalato il racconto.
Buona lettura
BENEDETTO TABARCHINO
da Calasetta a Berlino e ritorno… per fortuna!
Veramente il mio nome è Carmelo, Mellìn per i miei vicini, però se mi seguite nel racconto, verrete a sapere che al mio dialetto devo tanto e soprattutto la fortuna di aver portato a casa la carretta, come si dice, alla fine della seconda guerra mondiale.
Cominciamo da lontano.
Appartengo ad una famiglia di pescatori che da più di 100 anni è presente a Calasetta un paese così così, che si trova nell’isola di Sant’Antioco di fronte all’isola di San Pietro che noi chiamiamo l’isola e basta e dove gli abitanti di Carloforte che dovrebbero essere o Carlofortini o Carolini che noi chiamiamo Isolani perché per noi quella è l’isola.
La mia famiglia nasce da un felice innesto tra Carloforte (l’isua) e Tratalias a quattro passi da Calasetta da dove proviene mia mamma Nicca. Nicca e Cesare si sposarono e tirarono su tre maschi che mi pare quasi quasi siano nati a bordo della piroga Maddalena perché la nostra vita comincia subito in mare.
Questi tre figli nati e tirati su intorno ai primi 20 anni del secolo passato, quando arriva la chiamata (sai l’imbroglio di allora: e non c’è più la mamma che ti sveglia la mattina, eccetera eccetera, mettici anche un po’ di entusiasmo per la patria più grande che non ti risparmia il sacrificio) partono a turno per il servizio militare in Marina a 19 anni freschi freschi la mia chiamata quella cartolina rosa che ti fa fare il primo viaggio gratis in treno, giusto fino a la Maddalena, altra isola, per servire la patria, il re, il Duce.
Nel frattempo, anche se siamo in piena estate nel cielo di allora si presentano nuvoloni neri che promettono poco di buono: si avvicina al 8 settembre 1943.
Scovati e catturati a Fiume incassettati a mo’ di sardine e spediti in Germania a diventare gli schiavi di Hitler.
Ecco perché questo mio viaggio l’ho intitolato Calasetta Berlino andata e ritorno … per fortuna!
Per aver mormorato tra i denti due o tre parole in tabacchino.
Carri bestiame regolarmente sigillati, viaggio lungo e triste verso Lubecca; come ultima destinazione residenza coatta Stalag xb 34. Si intravede il mare, ma non è quello del mio paese. Accolti, macché accolti! accatastati in freddi capannoni, comincia la nostra vita di lavoratori “obbligati” per il bene della grande Germania
Autunno-inverno e poi autunno-inverno mai che spuntasse una primavera di sole e di libertà.
Altroché San Benedetto una rondine sotto il tetto. I compagni ti muoiono intorno e le punizioni delle SS fioccano, si fanno sempre più frequenti; si capisce che i tedeschi hanno l’acqua alla gola; ma non mollano, si fanno ogni giorno più crudeli, sono sempre più orientati per il grilletto facile.
Tra una fatica e l’altra qualcosa di umanitario però c’è: ci approntano sul tavolo della mensa delle cartoline gialle, come quelle delle ricevute di ritorno delle raccomandate postali, dove sono stampate parole di semplice convenzione: “sto bene e così ne spero di voi” – “Godo di ottima salute” – “Vi abbraccio e vi bacio con tanto affetto” – “A rivederci presto”; sulla cartolina che spetta a ciascuno di noi non c’è altro da fare che mettere il proprio nome e cognome, le SS la ritirano e la Croce Rossa fa il resto. Ora mi capita in un brutto pomeriggio di essere invitato a fare il mio dovere, rileggendo ancora una volta quelle parole ben ordinate mi scappa dalle labbra qualche parola in dialetto pressappoco così: altro che star bene tedeschi disgraziati ; “O-tru che sc-to’ ben tede-schi maledetti” ma due parole appena mugugnate.
Un tenente delle SS lancia un grido, ma un grido tanto forte che atterrisce tutto il capannone, tra i compagni di prigionia si fa un silenzio spaventato – Sai quando c’è il morto in casa. E il tenente mi sbatte fuori e mi chiude nella stanza dei nostri Kappò.
E mi fa: – de dunde tei? ma con uno sguardo un po’ addolcito.
– Sun sordu.
Incredulo – Sardegnolo?
– eia sun sordu!
ti si presenta un dialogo che lì per lì mi pare meno amaro di prima e vengo a sapere che il fin qui crudele tenente delle SS è un genovese rinnegato (noi diciamo Genovesi ed intendiamo Liguri) e vengo a sapere che suo “grande” (il nonno) gli aveva raccontato, come in una favola che c’era da qualche parte nel mare, qualcuno che parlava lontano da Genova, un genovese imbastardito.
l’avevo impietosito? il suo cuore di compatriota s’era sgroppato?
Ma poi il tenente riprende – vuoi toglierti da questo inferno? aderisci alla Repubblica sociale!
– no!
– vieni con noi nelle SS!
– no!
– vieni alla Todt!
– no!
qualcosa di uguale mi era stato proposto al tempo della cattura e ho sempre detto NO!
-Ed allora senti, stupido tabarchino, vuoi venire in una fattoria qui vicino che è tenuta dalle donne, dato che i maschi sono tutti al fronte a Stalingrado? ma tu le sai custodire le mucche?
– ho sempre allattato pecore da quando ero bambino, me ne intendo.
– affare quasi fatto!
E mi presenta una gamella di fagioli e me li sbaffo a quattro ganasce e ritorno nel mio capannone. E qui comincia il teatro di un giovane attore che per sopravvivere Prova a manovrare quel poco di intelligenza che gli è rimasta.
Mi presento ai compagni con l’aria di uno che ha poche speranze di vita, mi si fanno incontro addolorati e spaventati e qualcuno pensa per Mellìn è finita. Recito la mia parte al compagno che mi presenta la mia gamella con la solita brodaglia nera, la rifiuto dicendo -ti pare che possa consumare questa mia ultima cena?
E subito tanti a buttarsi sull’ultimo rancio di un condannato a morte.
E tutti aspettano l’epilogo.
Ma l’epilogo non viene
Ed intanto vengo chiamato nella stanza delle guardie dal solito tenente tedesco. Un’istruttoria con i fiocchi, se pure sommaria. In realtà siamo in una situazione di private trattative. Ho paura, l’ho sparata grossa. Devo rimediare. Non ne so niente di allevamenti. Ho qualche ricordo di vacche per averle viste nella corte di mio zio Efisio. Al tenente dico che tra i compagni c’è mio cugino che ha passato come tutte le avventure della guerra: chiamata alle armi, stesso distaccamento stesso imbarco e sbarco, stessa cattura, stesso internamento, stessa disperazione; questo mio fasullo cugino è il compagno Deriu di Cabras che è un vero allevatore.
– Tenente, io ci vengo alla fattoria, però voglio con me anche mio cugino.
– Ma tu vuoi un po’ troppo, bastardo di un tabarchino!
Ma alla fine vinco io, e partiamo in due per la fattoria della provvidenza.
Nel mio nuovo ambiente siamo dei mungitori solleciti grazie al “cugino” Deriu. Tutti i santi giorni a mungere vacche e non solo in questa fattoria fatta di donne.
Dopo tanti anni (quanti?) il mio “cugino” Deriu di Cabras è venuto a trovarmi per abbracciarmi e per gridare, secondo lui ai quattro venti, che l’ho salvato dall’inferno
E io allora? A me non sembra: però i familiari di ambo le parti ci assicurano che nell’abbraccio fraterno tra due reduci dalla schiavitù hitleriana le nostre due facce sono umide di lacrime miste a quella acquetta appiccicosa che esce dal naso e che chiamiamo comunemente sbru-giu.
Sarà vero? Sarà l’età?